Carissimo coro, oggi parliamo un po’ di un personaggio e uno stile che ci sono molto cari e che eseguiamo con una certa frequenza. Ci soffermiamo infatti su Palestrina e il suo modo di fare musica.
Palestrina è uno di quei rari artisti che concludono mirabilmente un’epoca, raccogliendo un’eredità artistica ormai destinata a dissolversi nella fredda imitazione, vivificandola con lo slancio geniale di una possente personalità e portandola in poco tempo alle vette più alte, sotto la spinta di un magistero formale ed espressivo che ha pochi altri esempi nella storia musicale.

Possiamo anche fare un parallelo, logicamente con le dovute correzioni, con Bach: anche questo monumentale musicista vissuto 200 anni dopo ha chiuso un’epoca musicale portandola ai massimi livelli, senza apparentemente inventare nulla di nuovo ma rielaborando stili e forme iniziate dai suoi predecessori. Anche lui ha vissuto praticamente in un’unica regione; padre di famiglia e assillato dai soliti problemi che questo comporta. Promosso infine al centro musicale maggiore della sua regione.

Alla sua nascita, l’epoca d’oro della polifonia fiamminga, (circa 1420 e 1520), è ormai alla conclusione della sua luminosa parabola. I musicisti delle Fiandre hanno trasformato il linguaggio polifonico in una scienza raffinatissima nella quale non si sa se ammirare di più la compattezza sonora delle varie voci o la spericolata abilità nel fonderle insieme (sarebbe interessante paragonare il SICUT CERVUS di Palestrina e l’AGNUS DEI del fiammingo DI LASSO che conosciamo).

Lo spirito del fiamminghismo trovare un fertile terreno a Venezia dove, a contatto con la tradizione locale, si trasforma in qualcosa di completamente nuovo: la Scuola Veneziana.
Il contrappunto diventa per i musicisti veneziani un mezzo, una base comune su cui innalzare fantasmagorici castelli sonori (per SCUOLA ROMANA o VENEZIANA intendiamo semplicemente un mondo di fare musica espresso in determinati ambiti : con strumenti o senza, con melodia accompagnata o polifonia ecc…).
Qualcosa di diverso e, quasi, di imprevedibile, avviene invece a Roma. Anche qui si erano avuti contatti fecondi con i maestri d’Oltralpe, ma senza alcun dubbio in misura inferiore che non presso le corti dell’Italia Settentrionale. Eppure è proprio a Roma che la polifonia elaborata dai fiamminghi trova il suo più splendido coronamento nell’opera magistrale di Palestrina e degli altri maestri del Cinquecento romano.

Centro della vita musicale romana sono le Cappelle musicali annesse alle basiliche e alle chiese maggiori: di San Pietro in Vaticano e di Santa Maria Maggiore, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria in Trastevere, di San Luigi dei Francesi, di San Lorenzo e Damaso. In queste Cappelle musicali un magister puerorum educa al canto un gruppo di fanciulli che fanno parte del coro addetto alle esecuzioni musicali durante le funzioni religiose (ancora oggi le maggiori cappelle musicali, per esempio quella del Duomo di Milano con Burgio e di Roma in San Pietro, hanno come coristi un gruppo di bambini e di uomini; nel nord Europa questa è ancora la prassi esecutiva).

Compito dei maestri di Cappella è quello di guidare le esecuzioni, si tratti di canto gregoriano o di Messe e Mottetti polifonici entrati nel repertorio delle chiese, e di comporre appositamente nuove opere sacre. Tutta la vita di Palestrina si svolge nell’ambito delle Cappelle musicali: di Santa Maria Maggiore, della Cappella Giulia in San Pietro, della Cappella Sistina come cantore, di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore, e dal 1571, fino alla morte, di nuovo alla Cappella Giulia ion san Pietro, in qualità di maestro di Cappella.
La situazione musicale a Roma, quando Palestrina inizia la sua attività, è caratterizzata da un contrasto che sembra insanabile. Da un lato c’è il canto gregoriano, del quale si sta ormai lentamente perdendo l’originaria purezza stilistica; dall’altro c’è la musica polifonica in cui lo spirito religioso è completamente trasformato in perizia tecnica e formale dai fiamminghi. Fra le due forme non c’è semplicemente un enorme divario di struttura e di proporzioni ma anche un’altra e molto maggiore differenza:

il Gregoriano era una preghiera che si manifestava in un modo caldo e pio;
la polifonia è al contrario una squisita, raffinata, duttile forma d’arte, che riveste argomenti sia religiosi che profani.
Il Gregoriano era un linguaggio semlice (…per esperti cantori, ad una voce), una preghiera;
la polifonia è un monumento, un quadro sonoro, una cattedrale di linee melodiche.
Nel Gregoriano la parola era pronunciata musicalmente,
nella polifonia invece la parola è soltanto un sostegno, una base della composizione, e la musica trova alimento nel gioco dei timbri e delle linee melodiche.
La parola, nella preghiera, è tutto, nella polifonia la parola è irrimediabilmente perduta.

Con la RIFORMA la musica ecclesiastica romana arriva ad un bivio, o vita o morte!

Lutero, riformando la vita religiosa del popolo tedesco, ha creato un nuovo repertorio di canti – i corali – quasi popolareschi nella loro semplicità (scusate questa impossibile concisione ma torneremo in altri articoli sullo stesso argomento).
La Chiesa romana, nutrita di arte splendida e grandiosa, non poteva invece di colpo rinunciare al suo fasto, non poteva restaurare il canto gregoriano, evidentemente ormai troppo lontano dalla sensibilità e dalla stessa comprensione dei fedeli, siamo nel 1500 ;
nello stesso tempo la polifonia – complessa e monumentale – contraddiceva alla più vera natura della religiosità, i testi cantati infatti erano ormai sepolti da funambolici artifici musicali, era frequente anche la politestualità e il ricorso a modi e melodie profane..
(Ricordo, per inciso, che nella chiesa romana tutta la parte musicale era affidata a cori o gruppi o solisti esperti mentre il popolo era passivo, assisteva e ascoltava.

Lutero si era prefisso invece di affidare la parte musicale a tutti i fedeli e questo ha fatto!)
Nel 1562 il Concilio di Trento affrontò finalmente il problema della musica sacra. L’incomprensibilità del testo, il virtuosismo dei cantori (che spesso abbellivano a loro piacere le linee melodiche), l’eccessiva monumentalità e complessità polifonica, il gusto sempre più dilagante per i temi profani furono tutti elementi severamente approfonditi durante i lavori del Concilio; un certo numero di vescovi espressero la loro indignazione proponendo la totale e definitiva abolizione della musica polifonica dalle Chiese. Anche Papa Marcello II appoggiò tale risoluzione, e proprio nel timore di una così drastica misura, Palestrina compose la Messa appunto dedicata a quel pontefice, con la speranza di dimostrare che “i vizi e gli errori lamentati erano propri dei compositori e non della musica”. Fatta ascoltare la Messa al Papa, essa tanto piacque a lui e ai cardinali presenti da far radicalmente mutare il loro pensiero, volgendolo in netto favore della musica.

L’episodio, vero o leggendario che sia, adombra mirabilmente quello che fu Palestrina per la storia della musica sacra: non un riformatore, o un precursore di nuove forme, neppure l’iniziatore di una nuova scuola (che, anzi, si può dire che la polifonia dopo di lui rapidamente declini).

Al contrario il restauratore dello spirito del passato, servendosi cautamente e genialmente della tecnica che il suo tempo gli offriva, senza sostanzialmente modificarla e abbandonando il canto gregoriano in modo definitivo.
Proprio quello che Bach attuò due secoli più tardi (…conosceva e studiava le musiche di Palestrina…)
Quello che soprattutto affascina nella musica palestriniana è la melodia serena e distesa, il periodare fluido ottenuto dall’intreccio delle varie voci: le varie voci polifoniche nella loro singola individualità danno vita a qualcosa di nuovo: sono molte voci, ma nello stesso tempo è un unico melodizzare, attento al ritmo e alla struttura della parola, fedele al significato dei testi sacri. Non che Palestrina riesca a far intendere perfettamente le parole del testo, ma quello che in Palestrina sempre si intende è il senso più intimo e vero della parola, il suo valore più profondo di preghiera e di comunicazione con Dio. Palestrina semplifica la linea melodica delle varie voci, riduce al massimo i lunghi vocalizzi su una sola sillaba, e infine pratica un contrappunto estremamente semplificato e trasparente.

Egli quando scrive musica non cerca di testimoniare la sua bravura o di dimostrare che è capace di innalzare grandiosi monumenti sonori; interpreta un testo sacro -una Messa, un Mottetto, un Inno – che deve servire per un ben determinato scopo liturgico, deve essere ben comprensibile ai fedeli e nello stesso tempo deve scuoterli e come eccitarli spiritualmente con il fasto sonoro: nello stesso tempo religione e arte, fede e bellezza, parola spirituale e parola poetica, sacro e profano, cielo e terra.
In questo dunque consiste la grandezza di questo autore.
La musica polifonica è una delle forme musicali più complesse ancora oggi, difficile sia per chi la scrive che per chi la esegue.

L’ascoltatore rimane inizialmente perplesso ma affascinato di fronte a questa valanga di suoni che si accavallano in un apparente disordine; ad un secondo e terzo ascolto si trova già a seguire linee melodiche nascoste che affiorano e si dileguano in un percorso sempre più intelligibile quanto più il brano è conosciuto, fino a percepirne chiaramente il testo e gli intrecci che ormai hanno il sapore della conquista musicale che appaga l’ascoltatore in modo particolare.