Concerto di Natale 2023 Il Video
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Concerto di Natale 2023 Chiesa di Renate
Un grande successo, Il video integrale del concerto.
Palestrina e la "Scuola Romana"
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Carissimo coro, oggi parliamo un po’ di un personaggio e uno stile che ci sono molto cari e che eseguiamo con una certa frequenza. Ci soffermiamo infatti su Palestrina e il suo modo di fare musica.
Palestrina è uno di quei rari artisti che concludono mirabilmente un’epoca, raccogliendo un’eredità artistica ormai destinata a dissolversi nella fredda imitazione, vivificandola con lo slancio geniale di una possente personalità e portandola in poco tempo alle vette più alte, sotto la spinta di un magistero formale ed espressivo che ha pochi altri esempi nella storia musicale.
Possiamo anche fare un parallelo, logicamente con le dovute correzioni, con Bach: anche questo monumentale musicista vissuto 200 anni dopo ha chiuso un’epoca musicale portandola ai massimi livelli, senza apparentemente inventare nulla di nuovo ma rielaborando stili e forme iniziate dai suoi predecessori. Anche lui ha vissuto praticamente in un’unica regione; padre di famiglia e assillato dai soliti problemi che questo comporta. Promosso infine al centro musicale maggiore della sua regione.
Alla sua nascita, l’epoca d’oro della polifonia fiamminga, (circa 1420 e 1520), è ormai alla conclusione della sua luminosa parabola. I musicisti delle Fiandre hanno trasformato il linguaggio polifonico in una scienza raffinatissima nella quale non si sa se ammirare di più la compattezza sonora delle varie voci o la spericolata abilità nel fonderle insieme (sarebbe interessante paragonare il SICUT CERVUS di Palestrina e l’AGNUS DEI del fiammingo DI LASSO che conosciamo).
Lo spirito del fiamminghismo trovare un fertile terreno a Venezia dove, a contatto con la tradizione locale, si trasforma in qualcosa di completamente nuovo: la Scuola Veneziana.
Il contrappunto diventa per i musicisti veneziani un mezzo, una base comune su cui innalzare fantasmagorici castelli sonori (per SCUOLA ROMANA o VENEZIANA intendiamo semplicemente un mondo di fare musica espresso in determinati ambiti : con strumenti o senza, con melodia accompagnata o polifonia ecc…).
Qualcosa di diverso e, quasi, di imprevedibile, avviene invece a Roma. Anche qui si erano avuti contatti fecondi con i maestri d’Oltralpe, ma senza alcun dubbio in misura inferiore che non presso le corti dell’Italia Settentrionale. Eppure è proprio a Roma che la polifonia elaborata dai fiamminghi trova il suo più splendido coronamento nell’opera magistrale di Palestrina e degli altri maestri del Cinquecento romano.
Centro della vita musicale romana sono le Cappelle musicali annesse alle basiliche e alle chiese maggiori: di San Pietro in Vaticano e di Santa Maria Maggiore, di San Giovanni in Laterano e di Santa Maria in Trastevere, di San Luigi dei Francesi, di San Lorenzo e Damaso. In queste Cappelle musicali un magister puerorum educa al canto un gruppo di fanciulli che fanno parte del coro addetto alle esecuzioni musicali durante le funzioni religiose (ancora oggi le maggiori cappelle musicali, per esempio quella del Duomo di Milano con Burgio e di Roma in San Pietro, hanno come coristi un gruppo di bambini e di uomini; nel nord Europa questa è ancora la prassi esecutiva).
Compito dei maestri di Cappella è quello di guidare le esecuzioni, si tratti di canto gregoriano o di Messe e Mottetti polifonici entrati nel repertorio delle chiese, e di comporre appositamente nuove opere sacre. Tutta la vita di Palestrina si svolge nell’ambito delle Cappelle musicali: di Santa Maria Maggiore, della Cappella Giulia in San Pietro, della Cappella Sistina come cantore, di San Giovanni in Laterano, di Santa Maria Maggiore, e dal 1571, fino alla morte, di nuovo alla Cappella Giulia ion san Pietro, in qualità di maestro di Cappella.
La situazione musicale a Roma, quando Palestrina inizia la sua attività, è caratterizzata da un contrasto che sembra insanabile. Da un lato c’è il canto gregoriano, del quale si sta ormai lentamente perdendo l’originaria purezza stilistica; dall’altro c’è la musica polifonica in cui lo spirito religioso è completamente trasformato in perizia tecnica e formale dai fiamminghi. Fra le due forme non c’è semplicemente un enorme divario di struttura e di proporzioni ma anche un’altra e molto maggiore differenza:
il Gregoriano era una preghiera che si manifestava in un modo caldo e pio;
la polifonia è al contrario una squisita, raffinata, duttile forma d’arte, che riveste argomenti sia religiosi che profani.
Il Gregoriano era un linguaggio semlice (…per esperti cantori, ad una voce), una preghiera;
la polifonia è un monumento, un quadro sonoro, una cattedrale di linee melodiche.
Nel Gregoriano la parola era pronunciata musicalmente,
nella polifonia invece la parola è soltanto un sostegno, una base della composizione, e la musica trova alimento nel gioco dei timbri e delle linee melodiche.
La parola, nella preghiera, è tutto, nella polifonia la parola è irrimediabilmente perduta.
Con la RIFORMA la musica ecclesiastica romana arriva ad un bivio, o vita o morte!
Lutero, riformando la vita religiosa del popolo tedesco, ha creato un nuovo repertorio di canti – i corali – quasi popolareschi nella loro semplicità (scusate questa impossibile concisione ma torneremo in altri articoli sullo stesso argomento).
La Chiesa romana, nutrita di arte splendida e grandiosa, non poteva invece di colpo rinunciare al suo fasto, non poteva restaurare il canto gregoriano, evidentemente ormai troppo lontano dalla sensibilità e dalla stessa comprensione dei fedeli, siamo nel 1500 ;
nello stesso tempo la polifonia – complessa e monumentale – contraddiceva alla più vera natura della religiosità, i testi cantati infatti erano ormai sepolti da funambolici artifici musicali, era frequente anche la politestualità e il ricorso a modi e melodie profane..
(Ricordo, per inciso, che nella chiesa romana tutta la parte musicale era affidata a cori o gruppi o solisti esperti mentre il popolo era passivo, assisteva e ascoltava.
Lutero si era prefisso invece di affidare la parte musicale a tutti i fedeli e questo ha fatto!)
Nel 1562 il Concilio di Trento affrontò finalmente il problema della musica sacra. L’incomprensibilità del testo, il virtuosismo dei cantori (che spesso abbellivano a loro piacere le linee melodiche), l’eccessiva monumentalità e complessità polifonica, il gusto sempre più dilagante per i temi profani furono tutti elementi severamente approfonditi durante i lavori del Concilio; un certo numero di vescovi espressero la loro indignazione proponendo la totale e definitiva abolizione della musica polifonica dalle Chiese. Anche Papa Marcello II appoggiò tale risoluzione, e proprio nel timore di una così drastica misura, Palestrina compose la Messa appunto dedicata a quel pontefice, con la speranza di dimostrare che “i vizi e gli errori lamentati erano propri dei compositori e non della musica”. Fatta ascoltare la Messa al Papa, essa tanto piacque a lui e ai cardinali presenti da far radicalmente mutare il loro pensiero, volgendolo in netto favore della musica.
L’episodio, vero o leggendario che sia, adombra mirabilmente quello che fu Palestrina per la storia della musica sacra: non un riformatore, o un precursore di nuove forme, neppure l’iniziatore di una nuova scuola (che, anzi, si può dire che la polifonia dopo di lui rapidamente declini).
Al contrario il restauratore dello spirito del passato, servendosi cautamente e genialmente della tecnica che il suo tempo gli offriva, senza sostanzialmente modificarla e abbandonando il canto gregoriano in modo definitivo.
Proprio quello che Bach attuò due secoli più tardi (…conosceva e studiava le musiche di Palestrina…)
Quello che soprattutto affascina nella musica palestriniana è la melodia serena e distesa, il periodare fluido ottenuto dall’intreccio delle varie voci: le varie voci polifoniche nella loro singola individualità danno vita a qualcosa di nuovo: sono molte voci, ma nello stesso tempo è un unico melodizzare, attento al ritmo e alla struttura della parola, fedele al significato dei testi sacri. Non che Palestrina riesca a far intendere perfettamente le parole del testo, ma quello che in Palestrina sempre si intende è il senso più intimo e vero della parola, il suo valore più profondo di preghiera e di comunicazione con Dio. Palestrina semplifica la linea melodica delle varie voci, riduce al massimo i lunghi vocalizzi su una sola sillaba, e infine pratica un contrappunto estremamente semplificato e trasparente.
Egli quando scrive musica non cerca di testimoniare la sua bravura o di dimostrare che è capace di innalzare grandiosi monumenti sonori; interpreta un testo sacro -una Messa, un Mottetto, un Inno – che deve servire per un ben determinato scopo liturgico, deve essere ben comprensibile ai fedeli e nello stesso tempo deve scuoterli e come eccitarli spiritualmente con il fasto sonoro: nello stesso tempo religione e arte, fede e bellezza, parola spirituale e parola poetica, sacro e profano, cielo e terra.
In questo dunque consiste la grandezza di questo autore.
La musica polifonica è una delle forme musicali più complesse ancora oggi, difficile sia per chi la scrive che per chi la esegue.
L’ascoltatore rimane inizialmente perplesso ma affascinato di fronte a questa valanga di suoni che si accavallano in un apparente disordine; ad un secondo e terzo ascolto si trova già a seguire linee melodiche nascoste che affiorano e si dileguano in un percorso sempre più intelligibile quanto più il brano è conosciuto, fino a percepirne chiaramente il testo e gli intrecci che ormai hanno il sapore della conquista musicale che appaga l’ascoltatore in modo particolare.
Lo Swing questo sconosciuto che ci fa ballare
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Carissimo Coro, lo scorso anno ho avuto la fortuna di partecipare a due manifestazioni a Milano, allo “SPIRIT DE MILAN” in via Bovisasca, che fino ad allora non sapevo neppure esistesse. L’occasione dell’invito è stata data da Lorenzo, studente di clarinetto, nostro amico: “dai vieni a sentire, c’è uno spettacolo di swing”. Quello che lo Swing fosse lo sapevo benissimo: un genere musicale americano, anni 30/50, che ricordo molto bene, che mi ha entusiasmato, che ho ancora nelle vene … e altrettanto suono ora, ma quello che mi sono chiesto era invece quale fosse la sua attinenza oggigiorno proprio a Milano, con quella confusione di stili e musiche in cui siamo immersi e che non facciamo neppure in tempo ad aggiornarci giorno per giorno. …Uno stile pieni anni 40 ai giorni nostri! Mah, andiamo a sentire…. E invece sono rimasto di stucco nel vedere una massa di persone di tutte le età che senza alcun problema partecipavano a quest’incontro. E come ballavano!!!, tantissimi poi indossavano perfetti abbigliamenti d’epoca che per me, nel vederli, hanno rappresentato un tuffo nel passato.. E’ stata una scoperta. Ma con tutti gli stili, balli, mode ecc. che convivono oggi, ha senso un ritorno così massiccio al passato? Gli esecutori sembravano saltati fuori da cartoline anni 30, abbigliamenti rigorosamente d’epoca, capelli brillantinati…ma come suonavano! Veri artisti! coinvolgenti: i brani erano perfette trascrizioni degli originali d’epoca. E quanti giovani!!! allegri, sereni, attenti alle musiche e alle movenze in perfetto stile swing. Ne sono ancora abbagliato. Mi ha coinvolto pure un’oretta di approccio a questi balli con pazienti ballerini che hanno insegnato ai principianti, in pista, i movimenti più semplici ma che già rappresentava un avvicinarsi gradevolissimo a questo stile.
Ma cos’è questo SWING che personalmente sento ancora vivo come quando ero imberbe?
Siamo negli USA. Negli anni trenta, dopo decenni di predominio del jazz tradizionale proveniente da New Orleans e dopo la depressione del 33, c’era voglia di aria nuova. A Kansas City, ingaggiando giovani musicisti di talento, un grande direttore, Count Basie, diede vita a un fenomeno musicale che negli anni 40 ebbe il suo decennio d’oro. Questo fenomeno fu chiamato la Swing Era. Poco dopo anche a New York, Duke Ellington e altri compositori come Benny Goodman,Jimmy Dorsey, Tommy Dorsey, Glenn Miller, Woody Herman e Artie Shaw riunendo grandi orchestre e spingendosi sempre più nella musica colta (di matrice europea) contribuirono al successo dello swing.
Lo SWING consiste nel marcare ritmicamente le varie frasi musicali usando il sistema PUNTATO e SINCOPATO. Questo piccolo espediente rende il brano più dinamico, scattante, coinvolgente, facilmente trasformabile in movimenti corporei. E’ difficile infatti stare fermi durante l’ascolto di questi brani.
Ecco un esempio di scrittura: quella tradizionale e sotto quella con applicato lo stile swing.
Riconoscerete, anche solo visivamente, che nel secondo pentagramma il ritmo è più accentuato e certe legature tra le battute anticipano la nota reale sul battere. Questa tecnica, a differenza del gemello Jazz, che è di preferenza strumentale, era applicato alle canzoni popolari aumentandone così la diffusione in modo esponenziale. Radio, produzioni cinematografiche finalmente col sonoro, dischi e locali dedicati hanno infine fatto il resto.
In Italia lo SWING è arrivato con gli americani nel ’45, prima era passibile di arresto chi ascoltava alla radio emittenti non italo-tedesche, il possedere anche qualche 78 giri di questa musica era già considerato un delitto e sabotaggio verso la nazione. Nasce quindi lo SWING ITALIANO, ROMANTICO, BALLABILE, ORECCHIABILE, che nel dopoguerra ha fatto sognare e ha accompagnato le fatiche della ricostruzione. Oggi lo swing, come molte altre mode, sta rivivendo la sua seconda giovinezza e le musiche e i balli swing stanno riempiendo di nuovo le sale da ballo e gli spazi improvvisati per soddisfare gli appassionati. Una musica che si porta bene i suoi ottant’anni.
Oggi lo SWING è ancora facilmente ascoltabile tramite Internet, Spoty…. e queste periodiche manifestazioni. Vi invito a partecipare a questi eventi, se non altro per vedere come tanti giovani e non più giovani si divertano serenamente tra un panino e un ballo e tanta, tanta musica.
La Musica Sacra e i giovani
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Carissimo Coro, la settimana scorsa un mio amico mi ha inviato questa mail:
…….Ti avevo accennato a quel convegno vaticano sulla musica sacra Non avendo lo scanner te lo scrivo
STOP ALLE CANZONETTE LA CHIESA VUOLE CAMBIARE MUSICA
Basta con i soliti “Resuscitò”, “Maria, piccola Maria”. Le canzoni dal ritmo facile non sono un buon viatico per la fede. Il Vaticano ha deciso di promuovere un convegno “Musica e Chiesa”: culto e cultura a 50 anni della “Musicam sacram” sul rapporto tra Chiesa e musica. Il problema è pastorale, spiega il vescovo Carlos Azevedo numero due del pontificio consiglio della cultura: “Si pensa che componendo una canzone dall’ascolto facile si ottengano nuovi adepti ma se poi il ritmo è ripetitivo, la canzone stanca. La musica deve esprimere quell’estetica che conduce verso il senso del sacro e del mistero”….
Sono frasi già sentite.
In cosa consista poi quella musica del repertorio usuale che deve: esprimere quell’estetica che conduce verso il senso del sacro e del mistero proprio non lo so.
Probabilmente si fa riferimento a canti come “Benediciamo il Signore”, “Noi ti lodiam e ti benediciamo”, “Resta con noi Signore, alleluia”, “A te Signor leviamo i cuori” e un’infinità di altre miserie musicali nate quando è finalmente entrata la lingua italiana nelle chiese italiane, anni ‘63/’64 e che, a quanto pare sono ancora l’ossatura della nostra povera musica sacra.
Personalmente non sono d’accordo con misure drastiche da prendere sulla musica dei giovani.
Prima di abolire o vietare qualcosa ci si dovrebbe fare due semplici domande.
1- Cosa può sostituire la musica attuale dei giovani? …e a questa domanda non ci sono risposte.
2- Quali sono le proposte musicali fatte ai giovani dagli anni ’64 ad oggi? …e anche a questa domanda non ci sono risposte.
Questi movimenti giovanili sono nati proprio per ovviare all’atavica staticità musicale che da sempre affligge la nostra musica sacra; sono nati e continuano la loro attività nonostante tutto. Certo, non rappresentano il fior fiore della musica e dei musicisti; quasi nessuno di loro ha fatto i più semplici studi musicali e quello che hanno appreso lo hanno appreso imitando altri gruppetti come i loro, ma l’entusiasmo che mettono nel fare musica dovrebbe far pensare.
Dov’erano questi censori musicali quando in quegli anni si cantava Giombini, Gen verde, rosso, rosa, i canti dello spirito, e un’infinità di altre idee che hanno portato all’oggi giovanile?
Io in quegli anni c’ero, ho iniziato a suonare in chiesa proprio nel 1963 e da allora ad oggi ne ho viste di tutti i colori, e vien voglia di dire: ben vengano, meno male che questi gruppi ci sono, hanno dato un po’ di sveglia, diversamente avremmo funeree ombre medioevali.
Certo vanno educati a scelte musicali adeguate, ma questo discorso, prima che a loro va fatto a chi ha responsabilità maggiori. E’ una diatriba che porta molto lontano, in terreni scivolosi e con muri costantemente invalicabili.
E poi c’è un’ultima domanda che mi faccio:
Come si fa a censurare alcuni canti giovanili quando per esempio si permette di cantare in chiesa:
– CON TE GESU’: melodia presa pari pari dal Poema Sinfonico FINLANDIA di J. Sibelius e considerato dai finlandesi il loro secondo inno nazionale
– PADRE CHE NEL CIELO STAI: melodia presa dal film IL LAUREATO in scene girate in una camera da letto
– SANTA CHIESA DI DIO: altra melodia presa da una marcia militare inglese di E. ELGAR (Pomp and circumstance) e usata per le cerimonie più importanti della Regina Elisabetta
– Un’infinità di melodie che si muovono all’opposto del testo che dovrebbero commentare ed elevare e invece sortiscono l’effetto opposto
– E altre amenità del genere
… e poi si proibisce l’esecuzione dell’Ave Maria di Schubert…
Antonio Vivaldi GLORIA
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Carissimo coro eccoci per un altro incontro con un autore di cui cantiamo le opere.
Per noi è sempre una grande soddisfazione poterci avvicinare a queste grandi opere di grandi autori. È come essere sempre a tu per tu con opere di Michelangelo, Raffaello, Leonardo da Vinci eccetera. Noi non ci accorgiamo più di queste grandi opportunità che abbiamo, invece dobbiamo essere sempre coscienti che stiamo rendendo udibili opere che appartengono al patrimonio dell’umanità.
È come se Vivaldi vivesse ancora oggi tramite noi, il coro…. E questa è la magia della nostra musica, ricordiamolo sempre
L’opera sacra di Vivaldi (Don Antonio Vivaldi), comprende solo una trentina di opere non certo paragonabili come cifra alle centinaia e centinaia di suoi concerti, sonate e opere di ogni genere. Questi manoscritti sono stati scoperti solamente negli anni venti, nemmeno cent’anni fa. Si sapeva che Vivaldi avesse scritto qualcosa di sacro ma apparentemente non esistevano i manoscritti o le stampe (rinvenuti poi nel Fondo Foà-Giordano della Biblioteca Universitaria di Torino). In effetti Vivaldi ha fatto stampare le opere strumentali ma non quelle sacre per motivi che ora non sto qui ad illustrare.
Le opere arrivate a noi hanno comunque la sua impronta: il dominio degli archi, l’immediatezza dell’insieme sonoro, la semplicità costruttiva che però non è indice di superficialità, un godimento estetico sempre immediato.
Mentre a Roma (scuola romana) si continuava imperterriti a concepire il canto liturgico essenzialmente a cappella, a Venezia (scuola veneziana) fin dal ‘500 viene impiegata stabilmente l’orchestra, con effetti quadrifonici sorprendenti. La chiesa di Venezia non era sempre osservante delle norme stabilite a Roma e si muoveva in modo autonomo.
Ma veniamo al nostro GLORIA.
Questo Gloria RV 589 del 1716 è senz’altro una delle pagine più conosciute ed eseguite del maestro veneziano proprio per l’incipit che attira subito i favori dell’ascoltatore; l’organico è composto da un coro a quattro voci classiche, come solisti sono previsti due soprani, un contralto e l’orchestra comprende oboe, tromba, archi e basso continuo. Il testo è quello liturgico, che si canta nelle feste, organizzato in 12 parti alternate fra momenti corali e solistici: gli interventi strumentali mutano in base al mutare delle opzioni vocali impiegate. Il TUTTI orchestrale si manifesta solo nel primo e nell’ultimo brano che hanno intenti tematici identici.
Il Gloria si apre con un’incisiva e ritmica introduzione orchestrale tipicamente vivaldiana. All’unissono iniziale degli strumenti segue una vivace, semplice cellula melodica di una battuta che rompe la staticità ritmica iniziale, da qui una progressione discendente introduce l’entrata omoritmica del coro. L’orchestra accompagna il coro con un disegno semplicissimo di crome che procede formando semplici accordi consonanti. Il brano, fluidissimo e brillante riesce a comunicare
un grande senso di gioia. L’intervento della tromba comunica quel senso trionfale e di gaiezza che rende molto interessante questo primo brano.
Segue il versetto Et in terra pax . Qui l’atmosfera cambia radicalmente; Vivaldi interpreta il testo usando lo stile imitativo, le voci s’innestano due a due intessendo un lento tema cromatico. È un brano molto interessante: alla pacatezza degli intrecci corali si aggiungono gli archi che nella parte grave punteggiano ritmicamente e incessantemente tutte le frasi mentre i violini intessono più rapidi disegni che ricordano quelli del Gloria introduttivo. Da notare l’intervento cromatico ascensionale sulle parole BONAE VOLUNTATIS, quasi a sottolineare che la pace dobbiamo volerla noi per primi, persone di buona volontà.
Il Laudamus te è un duetto per due soprani con l’accompagnamento di archi e continuo; il brano è allegro, il clima è quello festoso espresso dal suono brillante degli archi con l’uso di abbondanti progressioni tipicamente vivaldiane
Segue l’adagio del Gratias agimus tibi : sei battute in tutto in stile omofonio che fa da ponte fra il due brillanti brani, il precedente e il seguente.
Propter magnam gloriam tuam: è un breve, vivace, brillante fugato a quattro voci accompagnato con un semplice raddoppio del coro da parte degli archi. Verso il termine i tempi sembrano rallentare rendendo il brano meno gaio e preparano l’ascoltatore alla successiva parte più lenta.
Il Domine Deus Rex Coelestis . L’andamento “alla siciliana”, in 12 ottavi e l’intervento dell’oboe rendere pastorale e idilliaca quest’aria per soprano e basso continuo, la voce pulita del soprano mette in risalto di volta in volta la parola PATER, Padre, con un lungo vocalizzo. Questo espediente si manifesta ben quattro volte in modo sempre più intenso per dare ancora un maggior significato alla “Paternità di Dio”.
Segue Domine Fili Unigenite : dopo l’introduzione strumentale il coro avvia il suo intervento con un incisivo ritmo usando la tecnica del canone. Il brano ha un certo sapore spavaldo e operistico forse un po’ eccessivo per il testo musicato. Da osservare che quando le frasi ritmiche giungono al termine, alla parola “Jesu Christe”, si assiste a un frettolosa conclusione dell’entusiasmo iniziale.
Domine Deus, agnus Dei : l’unico brano che vede la compartecipazione di una solista e il coro. L’introduzione affidata al continuo (violoncello e organo) ci porta in un’atmosfera più intima: l’intensa voce del contralto che canta una dolcissima melodia, invoca l’AGNELLO DI DIO, mentre il coro interviene con frasi invocative sempre più marcate per invocarne il perdono.
Qui tollis, di nuovo il brano è affidato al coro con sostegno dell’orchestra: un coro omofonico che lentamente e progressivamente aumenta la propria sonorità sulle parole: ASCOLTA LA NOSTRA SUPPLICA.
Qui sedes ad dexteram patris, brillante aria per contralto, dal chiaro sapore di concerto: dopo un’introduzione orchestrale (sempre d’archi) si snoda la melodia vocale che sembra colloquiare tra il Tutti dell’orchestra e il Solo del contralto: sullo stile dei vecchi Concerti Grossi.
Quoniam tu solus sanctus: ritornano oboe e tromba in questo brano che in realtà è una frettolosa sintesi e riduttiva sintesi del materiale utilizzato nel primo movimento e introduce la solenne fuga finale.
Cum Sancto Spiritu: forse il brano più interessante della raccolta: è un complesso fugato che però conclude anche un altro Gloria, non è opera di Vivaldi; si tratta di una sezione di Gloria scritta da Giovanni Maria Ruggieri nel 1708 e solo ricopiata dal compositore veneziano.
Qualcuno del coro ha fatto giustamente osservare come questa composizione sia più “leggera” di quella di altri contemporanei. Ed è vero. Un paragone con l’omonima composizione di Bach , per esempio, è già opzione impraticabile. Per chi conosce entrambe le opere, quella di Vivaldi appare frettolosa, superficiale. E’ anche possibile che i suoi tempi ristretti lo abbia obbligato a questa scelta, forse l’inserimento nel finale di un brano di altro autore ne può essere la conferma: non lo sappiamo.
Ci rimane però sempre il gusto dell’immediatezza, dell’inventiva brillante, del piacere dell’ascolto di una serie di brevi brani che hanno sempre il sapore del fresco d’inchiostro.